Lucia Coppola - attività politica e istituzionale | ||||||||
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Trento, 25 maggio 2012 Mi inserisco, da testimone informata, nel dibattito che in questi giorni ha infiammato la discussione sulla questione palestinese e, in particolare, su Gaza. È chiaro ormai a tutti che il processo di pace nelle martoriate terre israelopalestinesi è ancora tutto da inventare; che i passi che dovrebbe sancire la fine della violenza da entrambe le parti devono ancora essere compiuti; che l’impegno a far rispettare il cessate il fuoco e il ripristino di una situazione di giustizia e legalità nei confronti del popolo palestinese, privato di tutti i diritti, è di là da venire. Ma non si può equiparare la situazione, pur difficile, del popolo israeliano, con quella degli abitanti dei Territori della Cisgiordania, sempre più occupati, e di Gaza. Li ho visitati in più occasioni, constatando di persona la mancanza di diritti, la miseria, le condizioni di vita inimmaginabili, la sopraffazione quotidiana portata avanti con l’uso della forza. Ora, quei campi profughi, dove vivono persone scacciate dai propri paesi e dalle proprie case, assegnate ai cittadini israeliani, dopo decenni di promesse mancate e di violenze inaudite, sono diventati caposaldo di quell’estremismo islamico che è, purtroppo, l’inevitabile e drammatica conseguenza di un dolore non più sopportabile. Un dolore, quello dei palestinesi, che non può essere sottaciuto, neppure in nome del grande rispetto, dell’amore profondo, della condivisione che si prova per le sofferenze subite dal popolo ebraico. A Gaza ho visto sorrisi e lacrime di bambini senza scuola, di ragazzi senza università, ho visitato porti e aeroporti dove nessuno arriva e nessuno parte. Fabbriche e officine chiuse, negozi aperti a singhiozzo. Condizioni igieniche indescrivibili. Ho conosciuto la fatica e il coraggio delle donne, che consolano i lutti, che tentano di portare speranza e conforto ad una disperazione lunga qualche decennio. Che continuano a lavorare per garantire una parvenza di normalità a vite che di normale non hanno più niente. Ho incontrato tanti giovani volontari, laici, cristiani, ebrei e musulmani, forze di interposizione disarmate e appassionate, tanti cittadini israeliani di buona volontà che si battono a fianco dei palestinesi e ne condividono le sofferenze. Gaza City è una città martire e nessuno può negarlo, e i campi profughi sono una realtà che è sotto gli occhi di tutti, una vergogna che non va minimizzata. Non sono il Purgatorio, come è stato detto, ma «l’inferno di Gaza», universalmente riconosciuto. Ricordo la città fitta di case, diversa dalle altre località palestinesi, dolorosamente consapevole, cosmopolita e viva. Una città che mi ha accolto più volte e sempre con affetto. Con l’ospitalità e il rispetto che circondano l’ospite di attenzioni anche nei momenti più cupi e dolorosi, come è nella tradizione del popolo palestinese. E ricordo il suo mare, assurdamente e inutilmente azzurro, che si staglia in lontananza, la spiaggia illuminata dal sole eppure triste e sporca. Un mare inutile, un sole che non scalda. Gaza, che potrebbe essere un giardino delle delizie, la «terra di latte e miele», come in un tempo molto lontano veniva chiamata la Palestina, e che invece è per tutti, ora, la terra da cui scappare. Terra di tanti bambini e di tanti giovani, di tante armi e di tanta violenza, su cui si stagliano a vedetta i mitra dalle torrette fortificate dei campi profughi, attraversati dalle fogne a cielo aperto su cui giocano bambini scalzi e poliglotti. Lì la vita sembra perdere il suo valore, quando non c’è giustizia, quando la terra viene strappata palmo a palmo, come l’acqua, le strade, i campi, i luoghi di culto, e le case espropriate. Quando i muri crescono come erba al sole, invece di essere abbattuti e i check-point impediscono l’incontro tra le persone, il lavoro, il crescere dell’economia, il consolidarsi degli affetti. Eppure, sempre, la speranza prende il sopravvento. Ma è certo che se le scuole non saranno aperte in modo continuativo e le università di nuovo frequentate, se non si formerà una classe dirigente che governi un paese libero e moderno, come un tempo è stata la Palestina, il rancore e la violenza contro gli israeliani non finiranno. Perché la pace va costruita nel rispetto reciproco. Non accade a prescindere. Ma per i giovani di Gaza non c’è solo il terrorismo, sono in molti a lavorare con le ONG, a studiare, ascoltare musica, leggere e prepararsi a un futuro di pace, a cercare nella rete contatti, amicizia, risposte. Questa parte della società civile che non si arrende alla sconfitta di un conflitto continuo, va sostenuta e aiutata: non con una visione parziale delle cose, con atteggiamenti giustificatori di soprusi e ingiustizie più volte sanciti dall’Onu. Con un’esigenza risarcitoria, più che giustificata, che dovrebbe però essere indirizzata verso quell’Occidente che ha permesso l’orrore della Shoà: non certo verso i palestinesi che di quella vergogna e di quell’orrore non furono responsabili. Gaza, con le sue luci e le sue ombre, ci dice che si dovrebbe, e si sarebbe dovuto, fare di più. Infatti, l’Europa e l’America, le stesse Nazioni Unite, pur condannando l’uso indiscriminato della forza da parte di Israele e garantendo un sostegno anche economico alla lotta del popolo palestinese per la sua autodeterminazione, da troppo tempo hanno lasciato completamente scoperta la gestione politica del conflitto. La sensazione è quella che il grande tema aperto, cioè la condizione di due popoli che da più di sessant’anni vivono in stato di guerra, non sia ancora abbastanza al centro della geo-politica del mondo. Anzi, spesso sembra che i riflettori si siano quasi spenti. Ideologie contrapposte, estremismi, guerre di religione per l’acqua, il territorio, il controllo delle risorse, superficialità nei giudizi, parzialità, vanno in rotta di collisione con la difesa dei più deboli e dei senza diritti in Medio Oriente. Nasconderci la verità o mistificarla non servirà a cambiare le cose, a farci sentire meglio con la nostra coscienza. Né a nutrire le nostre intelligenze con la lucidità e l’onestà intellettuale che deve andare oltre le appartenenze, gli affetti, l’identificazione con un popolo e con una storia unica e immensa, come quella del popolo ebraico. È necessario, anche se doloroso, ritrovare quell’obiettività che sta alla base di ogni giudizio storico che non sia, quello sì, fazioso. Lucia Coppola
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LUCIA COPPOLA |
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